È una questione di cosce… Ma non alla Silvana Mangano, quella era cultura popolare e cinematografica. Quelle che oggi sono sulle prime pagine della cronaca delle cialtronerie italiche in campo di cibo sono cosce maialesche. Quelle suine, quelle delle vere maiale o castroni a 4 gambe, quelle che tengono in piedi alcuni dei marchi di prosciutti famosi nel mondo. Marchi che dovrebbero essere il vanto del Made in Italy, un orgoglio delle colline parmigiane o delle montagne friulane, un “fiore all’occhiello” come si suol dire. Garanzia totale del rispetto di ciò che la DOP nei suoi regolamenti dichiara e garantisce, o dovrebbe garantire. Ma quel fiore oggi si è scoperto essere bello solo fuori, a parole, fiore che al proprio interno non ha nettare dolce, sicuro e profumato e storie di colline e paesaggi incontaminati, dove i maiali italiani giocano e vivono felici, ma un liquido maleodorante, di quelli che sanno di truffa.

Ora, meglio chiarire subito che non mi propongo di raccontarvi per l’ennesima volta tutta la storia con nomi dei cialtroni, date, percentuali, razze suine ecc. Per quello vi rimando a due eccellenti lavori giornalistici condotti in TV da Rai 3 da “Report” e sul WEB da “Il Fatto Alimentare” dei quali fondo articolo vi darò i link. Là troverete tutta la vicenda fin nei minimi particolari. Riguardatevela e rileggetela; saranno un’utile lettura e visione da usare come strumento di sopravvivenza.

Io invece voglio andare oltre, nel territorio lurido proprio del bel racconto che vi viene somministrato ogni giorno più volte da parte della pubblicità, degli spot, dei giornali colorati e pieni di belle famigliole felici sedute a tavole ricoperte da cibi improbabili e falsamente naturali.
Di quelli che parlano di libertà e dolcezza, di etica e ambiente, di verdi valli e sapori antichi.

Per farlo mi soffermerò su alcuni aspetti che in parte vengono trattati da Report e in parte invece nemmeno nominati.
Tra quelli citati ne “La Porcata” proposta dall’ottimo Ranucci, vi è il video notturno e furtivo, – perché nessuno vuole far vedere la realtà fetida – di uno di quei campi di concentramento animale che oggi vengono chiamati allevamenti suini.
Nel servizio ci si sofferma sulle code tagliate e sulle orecchie morse, che sarebbero anche il minimo, pur essendo comunque vietate da norme europee. Ma ripeto, quisquilie nella problematica grave che investe la materia; questioni che agitano giustamente gli animalisti ma che non vanno al cuore del misfatto.

Nessuno dice invece chiaramente cosa mangino ogni giorno quei poveri maiali in quei mangimi perfettamente calibrati con cui vengono nutriti.

Nessuno parla della quantità di medicamenti a cui vengono sottoposti per ovviare ai guai sempre in agguato nella incredibile promiscuità maialesca. Nessuno apre gli armadietti della farmacia dell’allevamento che dominano il fare giornaliero di chi alleva maiali.
Nessuno parla infine della carenza di sole a cui sono sottoposti questi portatori di futuri prosciutti pregiati, sui tempi vergognosamente corti che quegli animali hanno per arrivare ai famosi 176 kg. da regolamento ferreo. Suini fatti in serie, tutti uguali, come in una grande fotocopiatrice 3D che funziona a carne porcina e non a resine o a materiali inerti. Ecco emergere il primo vero dato, dal mio punto di vista sia chiaro, ingannevole e cialtrone della vicenda: la carne suina. Massa proteica, ma che della carne vera ha solo il nome e l’aspetto.
La carne: questa sconosciuta. Un insieme di proteine e grassi. Anzi meno grassi possibili e più chiara e tenera possibile e che sia lontana mille miglia da qualsiasi legame sentimentale con l’animale di partenza.

Ora, nulla da dire sulla perfettissima, fin troppo, salubrità da manuale tecnico di quelle carni. Perfettamente nei parametri, sia chiaro.

Domanda: chi ha scritto quei paramenti e badando a quali caratteristiche? In genere sono solo perfetti rientri in numeri, dominio della Tecnica nemica della vita.
Ma c’è un altro manuale che non viene mai rispettato ed è quello dei parametri etologici di specie. Il suino, se lasciato libero nei boschi con radure, nei quali la sua natura lo porterebbe a vivere, avrebbe una dieta fatta di radici, erba, lombrichi, piccoli animali feriti trovati in giro, bacche, ghiande, castagne, funghi, frutti selvatici ecc.
Ora tutte queste cose buone da mangiare per un porco – che l’alone semantico con cui si vestono spot televisivi e video fa pensare a chi ascolta e guarda – siano veramente in quella fetta rosata e magra che il salumiere espone agli astanti allocchi, ecco tutto ciò quel povero suino nato cresciuto e imprigionato in un capannone non le ha mai, dico mai, viste né conosciute in vita sua.
La sua vita è fatta di puzza, competizione con i fratelli, nervosismo, tristezza animale purtroppo presente in un maiale la cui intelligenza è nota e di semi oscurità di luoghi nei quali il sole non entra mai. Figuriamoci il sapore del bosco.

Sono come il dopobarba che sa di pioggia in quella canzone nota.

Vediamo perciò questo altro aspetto nodale nella formazione della carne: il sole.
Il sole è certamente la fonte della vita che sul nostro pianeta si è organizzata trasformando materiali inerti, portandoli al pensiero insito nel movimento della materia vivente e sino al pensiero umano, che arriva a pensare se stesso.
Ora, una carne che non ha avuto nessun contatto con i cibi da bosco che ho citato sopra, che non ha preso sole, che non ha preso parte alla vita vegetale cibandosene, cosa per la quale era stata da forze misteriose organizzata, carne che sostanzialmente non ha “pensato”, voi come la chiamereste? Io non ho dubbi: carne falsa, carne simulacro. Acefala, non educata dal bosco e dai vegetali, non temprata dal vento e dal sole, mai bagnata dalla pioggia, mai messa alla prova in lunghe corse in una radura, mai messa alla prova neppure con banali batteri che in natura l’avrebbero resa forte e robusta, sana, combattiva e ricca di gusto e sapore della vita.

Ecco, è il sapore della vita che manca in quelle carni, sempre troppo salate, sempre troppo magre.

Così arrivo all’ultimo aspetto: il grasso.
Nel video di Report la questione è chiarita con poche, secche parole: il consumatore non vuole il grasso, vuole vedere la fetta di prosciutto con appena un filino di grasso: bianchissimo e poi tanto muscolo rosato.
Sì, certo. Di grasso candido e insapore fatto tra pelle e muscolo in un suino vissuto in una specie di clinica puzzolente degli orrori come sono oggi la gran parte degli allevamenti intensivi per porci, che sorgono nascosti alla vista in larga parte d’Italia, a quel grasso dico no, grazie.
Uno, perché quel grasso finto non è certo utile per il nostro metabolismo neuronale, quello che trasforma il triptofano in serotonina. Avete presente? Quella che vi tiene positivi e allegri e che nelle sue reazioni chimiche di creazione dentro al nostro corpo umano proprio del grasso animale necessita, meglio se di suino. Quella che qualcuno vi ha raccontato si possa recuperare dai fagioli e dai legumi. Quella senza grasso vero, saporito e non bianco, e talmente scarsa nel vostro corpo che non vi fa fare nemmeno un risolino, figuriamoci il sentirsi felici.
Due, perché quel grasso bianco che voi amate tanto, basta che sia pochissimo nel prosciutto che acquistate, è completamente privo della sua anima profonda data da una vita felice dal punto di vista suino, cioè la vita che è quella che gli viene regalata dal vivere brado e gli permette di trattenere dentro di sé, nella propria carne, i sapori del bosco e delle radure, i profumi della pioggia e del sereno fatto di vento.
Il grasso vero, buono, vivo, quando ben generatosi in suini vissuti liberi, al sole e al vento, è una fonte di omega 3 e omega 6 perfettamente bilanciata, come hanno dimostrato decine di studi. Un grasso vero, inoltre, non andrà certamente ad alterare di un microgrammo la vostra colesterolemia.

Chiudo infine con una nota di colore, perché il suo colore è rosato, venato, mai bianco.

Se in un prosciutto vero tu non hai capito il grasso, non lo conosci, non lo apprezzi, non lo cerchi, mi spiace ma non ti vuoi bene e ti sei lasciato infinocchiare dalla pubblicistica falsa e dalla Tecnica, che, ripeto, nella sua filosofia è nemica della vita. (Se volete approfondire questo tema, cercate Tecnica, in rete, e seguite le conferenze del Prof. Galimberti, che sulla Tecnica e i suoi aspetti filosofici docet).
Chiudo pregandovi di guardare e ascoltare la parte del video di Report in cui viene intervistato Aldo Brianti. Un vero allevatore di maiali, un porcaro come si deve. 300 suini il suo branco, allevati semi bradi in 15 ettari di collina, al sole e al vento. Ascoltate le sue parole con attenzione, guardate quegli eleganti e splendidi maiali neri che corrono davanti a lui.
Quelli e solo quelli erano i maiali che davano e dovrebbero dare origine al prosciutto di Parma; un vero gioiello di gusto e sapori. Le razze vocate erano la nera di Parma e la Mora romagnola. Le loro cosce, con un grasso buono, naturale e protettivo in stagionatura, potranno essere prosciutti che onorano la nostra tradizione norcina, che ci fa unici al mondo. Poi imparare un po’ dai cugini spagnoli e dai loro prosciutti invecchiati e superlativi, dall’anima che sa di ghianda e bosco, potrebbe essere utile. Il resto sono chiacchiere e distintivo, solo chiacchiere e distintivo.

Per approfondire e capire: 

Prosciuttopoli: il Consorzio di Parma ammette “gravi problemi da risolvere”. A rischio la Dop

https://www.raiplay.it/video/2019/05/La-porcata—20052019-10bf9ea4-9d35-4dc7-a653-e209af0b6177.html

  • Articoli
Vive in Austria, a Vienna, dal 2014. Studia, scrive e collabora con le sue “ragazze ronzanti” che volano e producono mieli nelle foreste viennesi. Api-cultore, mielosofo, amante della Sapienza applicata al cibo. Libero pensatore nato a Mantova nel secolo scorso. Dice di se: “Vengo… non so da dove. Sono… non so chi. Muoio… non so quando. Vado…non so dove. Mi stupisco di essere lieto.
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    Il tema con cui iniziare le mie righe questa volta, per tutti i lettori vecchi e nuovi del Cavoloverde.it, è da me più che amato: scriverò una volta ancora di mieli e in parte di api…

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