È ormai da una settimana che è scoppiata la rivolta dei pastori sardi.
Le bacheche dei social networks sono invase dal bianco del latte che scorre sulle strade, sulle piazze, sui fiumi e i torrenti, forte e prepotente nella sua semplicità.
La protesta ha assunto uno stile tutto suo, che nel rievocare la gestualità artistica dell’action painting, come giustamente qualcuno ha evidenziato (qui), risulta disarmante nella sua onestà. Lascia senza fiato per la bellezza estetica di queste scene al contempo terribili (gettare via il frutto del proprio lavoro). Ma cosa sta succedendo in Sardegna e perché interessa tutti noi e non solo i pastori sardi?

Negli ultimi giorni in tanti si sono impegnati a riflettere sulle cause “reali” della crisi del latte, dilettandosi a proporre idee e a trovare soluzioni efficaci per risolvere la situazione. Chi si affida ai numeri, chi evidenzia le criticità della filiera del pecorino romano a cui sono legate le aziende sarde, chi suggerisce che il latte dovrebbe diventare come il vino, un prodotto di terroir.

In questo articolo cercherò di riportare l’attenzione su quello che credo sia il problema di fondo che è causa della crisi, cercando di mostrare come la rivolta dei pastori sardi rappresenti in realtà l’occasione giusta per ripensare l’intero sistema di approvvigionamento del cibo che abbiamo costruito nel corso degli ultimi decenni.
Ciò che i pastori chiedono è che venga attribuito un giusto valore al proprio lavoro. Come ha evidenziato in una intervista dell’11 febbraio alla trasmissione radiofonica Tutta la città ne parla il sociologo Marco Pitzalis (qui), che da anni si occupa di studiare il Movimento Pastori Sardi, la burocratizzazione che ha interessato il settore agro-pastorale negli ultimi decenni ha avuto il risultato di modificare profondamente il sistema di produzione del latte ovi-caprino, aumentando in maniera considerevole i costi di produzione. Inoltre, le normative europee igienico-sanitarie che dovrebbero tutelare il consumatore, impedendo nella sostanza ai pastori di vendere direttamente i propri prodotti, hanno finito per rendere gli operatori dipendenti da una filiera “mono-cultura” in cui il prezzo è gestito dagli “industriali”.

In altre parole, in Sardegna i pastori non possono vendere il latte nei distributori automatici, per esempio, ma lo devono conferire alle aziende e cooperative che si occupano della sua trasformazione.

In questo modo il prezzo del latte è totalmente scollegato dai costi di produzione. È come se andassimo al supermercato e facessimo noi il prezzo delle cose che compriamo. È come se andassimo dal farmacista e dicessimo che oggi le pastiglie per il mal di testa le vogliamo pagare un euro invece che 2,50. Come se andassimo dal benzinaio e pagassimo la benzina sessanta centesimi a litro, perché siamo noi che compriamo a fare il prezzo.


Tanti hanno criticato la scelta di versare il latte per terra in segno di protesta. Però, a guardar bene, per nessun pastore questa è stata una scelta facile. Ma sessanta centesimi sono troppo pochi per coprire i costi di produzione, sono un insulto al lavoro dei pastori e delle loro famiglie.
È evidente che la posta in gioco è molto più alta e va ben oltre i confini della Sardegna. Che si tratti di latte, di arance, di pomodori, di miele, ciò che è in crisi è un sistema basato sullo sfruttamento degli uomini e delle donne che lavorano nelle campagne, non solo in Sardegna, ma anche in Sicilia, in Calabria, in Marocco e così via. È qui, a mio parere, che i pastori ci offrono la grande opportunità di ripensare il nostro sistema di approvvigionamento del cibo, evidentemente non più sostenibile sotto ogni punto di vista. I pastori sardi hanno offerto a tutti noi la possibilità di attribuire un nuovo valore al lavoro. L’opportunità di restituire dignità a quelle persone che dedicano il proprio tempo a produrre cibo per tutti noi.

Ogni mattina i pastori si alzano, accudiscono i propri animali, raccolgono il latte e poi vanno a buttarlo per le strade, perché quando il latte vale sessanta centesimi al litro vuol dire che il tempo che io ho messo per produrre quel litro di latte, il tempo che ho tolto alla mia famiglia, la fatica, le ansie, le incertezze, le notti insonni, tutto lo stress di un lavoro duro non valgono nulla. Io come essere umano valgo meno del benessere animale che viene garantito alle mie pecore. E qui sta la terribile bellezza della protesta dei pastori sardi.

Qualcuno, durante i blocchi stradali, regala il proprio latte: “Lo gradisce del latte fresco? È mio, l’ho munto questa mattina”. Meglio donarlo.
E qui sta la portata rivoluzionaria di questa prote

Greca N. Meloni

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Greca N. Meloni è ricercatrice in Antropologia Culturale presso l’Istituto di Etnologia Europea dell’Università di Vienna. La sua passione per l’arte e la cultura l’hanno portata a conseguire nel 2012 la laurea triennale in Beni Culturali, seguita poi dalla laurea magistrale in Archeologia e Storia dell’arte. Si interessa di studi museali e conduce ricerche sui temi che riguardano le diverse forme di patrimonio culturale e della memoria.Responsabile del ‘Progetto S’Intzidu’ per conto dell’Associazione Culturale Onlus S’Intzidu e ideatrice del Museo Virtuale del Territorio di Uta (https://www.sintzidu.com/ ). Attualmente è impegnata in una ricerca etnografica sulle pratiche e i saperi legati all’attività dell’apicoltura in Sardegna. Attraverso il suo film ‘Abieris e Abis. Beyond a drop of Honey’ (2018) [https://www.youtube.com/watch?v=JKrq4VkOZwE&t=5s ] racconta il complicato mondo dell’apicoltura in Sardegna, diviso tra le politiche di gestione del territorio e la tutela della biodiversità.