Cari lettori, arriviamo finalmente all’articolo che corona idealmente questa piccola serie sul cibo come prodotto culturale. Già, perché il cibo è prima di tutto un prodotto culturale, come abbiamo visto durante questo percorso. Eppure, riguardo al cibo sentiamo spesso usare il termine “naturale” a sproposito.
Il termine “natura” deriva direttamente dal latino natura, femminile di naturus, participio futuro attivo del verbo nascor, cioè “nascere” (sì, perché in latino esisteva il participio futuro!). Il significato letterale è quindi “che sta per nascere” o “che nascerà”, ma possiamo anche tradurlo più liberamente con “ciò che nasce così”. Cioè, in altre parole, ciò che troviamo così com’è, senza l’intervento umano.

Il termine “cultura” deriva, similmente, dal latino cultura, femminile di culturus, participio futuro attivo del verbo colo, cioè “coltivare”.

Il significato letterale è “che coltiverà”, ma il termine viene usato per indicare la coltivazione e solo in seguito assume, grazie a Cicerone, il significato metaforico che ci è familiare; scrisse infatti l’oratore: “cultura animi philosophia est”, ovvero “la filosofia è la coltivazione dell’anima”.
Quindi potremmo considerare “naturali” solo quegli ingredienti che vengono effettivamente presi così come sono dalla natura, senza trattamenti di alcun tipo, tipo -che so- le fragoline di bosco o i funghi. Ma è veramente difficile trovare dei prodotti che si possano considerare autenticamente “naturali”, e d’altra parte già “prodotto naturale” è in sé una contraddizione, perché se è prodotto da qualcuno non è certamente “naturale”.

Può avere più senso parlare di ingredienti naturali, ma anche qui dobbiamo ricordare che la specie umana è in giro da circa duecentomila anni e quindi è veramente difficile trovare un qualche ambiente che non sia stato almeno in parte influenzato dalle attività umane.

Facciamo qualche esempio: le pannocchie di mais che conosciamo sono il risultato di migliaia di anni di selezione da parte degli agricoltori nativi americani, ma derivano da un cereale che si chiama teosinte e che avrà sì e no una decina di chicchi per spiga. Le mele precedenti alla selezione umana erano grandi più o meno come ciliegie e molto, molto aspre (si trovano ancora, se siete curiosi). Se poi parliamo di animali allevati, immaginiamoci che i maiali “naturali” sarebbero i cinghiali, i bovini “naturali” sarebbero gli scomparsi uri e i cani “naturali” sarebbero i lupi.
Raggiungiamo l’apice dell’assurdità in espressioni come “vino naturale”: come se le bottiglie di vino crescessero sugli alberi già pronte. Il vino è il prodotto culturale per eccellenza, dato che le procedure che si seguono per produrlo consentono di consumare un alimento che tecnicamente sarebbe andato a male, in quanto gli zuccheri presenti nell’uva sono stati attaccati e digeriti dai lieviti. Il gene che ci permette di produrre l’enzima alcol-deidrogenasi, consentendoci di digerire l’alcol etilico è presente in misura molto maggiore fra le popolazioni che anticamente svilupparono l’usanza di bere bevande fermentate, mentre è praticamente assente fra altre, dove gli alcolici sono stati introdotti solo di recente (con effetti spesso devastanti).

Cioè in altre parole, l’usanza “culturale” di bere alcolici ha favorito l’emergere di un gene che consente di digerirli.

In modo simile si sono sviluppati in alcune popolazioni dove l’allevamento di bovini era importante dei geni che consentono di produrre enzima lattasi anche da adulti e quindi digerire il lattosio presente nel latte e nei latticini.
Ma perché tutta questa insistenza sulla “naturalità” del cibo? Si tratta di una strategia di marketing che non solo intercetta una domanda del mercato, ma che allo stesso tempo questa domanda la rinforza e la riproduce. L’idea di fondo è che ciò che è “naturale” sia più autentico, genuino e sano, ma va detto che la naturalità, vera o presunta, di un alimento non ha niente a che vedere con la sua salubrità. Non c’è niente di più “naturale” di un bel fungo velenoso, eppure nessuno ancora si è sognato di sostenere che faccia bene (mi auguro!). Va nella stessa direzione la moda crudista, secondo cui persino cuocere un alimento significa alterarne le qualità e quindi rovinarlo irrimediabilmente.

Eppure, lasciatemelo dire, ci sono molti alimenti, soprattutto vegetali, che crudi non si possono proprio mangiare, sono solo perché risulterebbero disgustosi, ma anche discretamente tossici, come ad esempio le patate.

Ma anche gli alimenti di origine animale spesso richiedono di essere cotti per essere consumati senza rischiare un’intossicazione alimentare. Prelibatezza crude come il sushi e la tartare sono più eccezioni che la regola e comunque richiedono delle precauzioni sanitarie perché si possano consumare in sicurezza (come ad esempio l’abbattimento della temperatura per il pesce).
Insomma, ogni volta che vediamo un alimento pubblicizzato come “naturale” facciamoci due domande e chiediamoci se non si tratti semplicemente di un’astuta strategia di marketing per farci pagare un certo prodotto a un prezzo superiore al suo valore reale.

 

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Francesco Bravin è un milanese imbruttito di origini friulane, dottore di ricerca in antropologia presso l’università di Genova, ha condotto una ricerca etnografica alle Cinque Terre sul ruolo dei prodotti tipici locali nell’immaginario turistico, dove si è dovuto sacrificare partecipando a tutte le sagre e le degustazioni di vino. Ha organizzato laboratori didattici in diverse scuole superiori a Milano, Brescia e Savona e al momento collabora come tutor didattico per le Scienze Sociali con l’università eCampus e con l’istituto Grandi Scuole. È presidente e fondatore dell’associazione Antropolis, che a Milano cerca di portare l’antropologia fuori dalla torre d’avorio accademica, nonché socio fondatore di ANPIA e, all’interno di questa, membro della commissione Scuola ed Educazione e del Consiglio dei Saggi. Nel tempo libero fa l’accompagnatore turistico, il biker e lo schermidore storico.