Questa domanda sembra piuttosto ingenua. Tutti conosciamo il detto “mangiare per vivere, non vivere per mangiare” e non si può negare che il cibo sia uno dei bisogni primari più importanti, direi sul podio insieme all’aria che respiriamo e all’acqua che beviamo.
Il cibo fornisce l’energia per le nostre cellule, in particolare grazie ai carboidrati, ma all’occorrenza anche grazie a grassi e proteine, e poi ci fornisce quei componenti essenziali che servono alle nostre cellule per costruire e riparare le strutture di cui sono fatte, e qui entrano in gioco le proteine. Non dimentichiamo però anche altri nutrienti importantissimi, come le vitamine e i sali minerali. Si potrebbe scrivere moltissimo su ognuno dei vari nutrienti, ma restiamo sull’aspetto antropologico, sociale e culturale.

Se mangiassimo solo per nutrirci, tanto varrebbe assumere degli integratori assolutamente insapori, ma contenenti tutti i nutrienti necessari al nostro benessere nelle giuste proporzioni.

Si aprono qui scenari fantascientifici e anche un tantino distopici, ma penso che un nutrimento del genere porterebbe rapidamente alla perdita della gioia di vivere. Insomma, anche se il cibo è prima di tutto un bisogno non possiamo negare che sia anche, innegabilmente, un piacere.
Ogni cultura, ogni società, potremmo dire persino ogni milieu storico e culturale ha sviluppato le proprie ricette, i propri modi di trattare il cibo e combinare gli ingredienti, per ottenere qualcosa che sia non solo nutriente, ma anche appetitoso. Ma non si tratta solo di edonismo individuale fine a sé stesso. Abbiamo visto come condividere un piacere come il cibo possa consolidare o persino creare dei legami sociali. Insomma, ce li vedete dei diplomatici che condividono razioni alimentari insapori?
“Tieni, ti ho portato da assaggiare una barretta alimentare del nostro paese, con tutti i nutrienti necessari”
“Oh, grazie! Ah, ma sa di cenere come quella che facciamo al nostro paese!”
“…”
“La vita fa schifo”
“Eh, già”

Sembra molto più interessante magari scambiare dei prodotti tipici o delle ricette tradizionali, e non solo perché sono buone, ma anche per la curiosità di sperimentare nuovi sapori.

Spesso il sapore è una delle prime cose che cogliamo delle altre culture con cui veniamo in contatto. Possiamo non essere mai stati in India o in Cina, ma conosciamo benissimo i loro sapori e i loro profumi*. L’incontro fra cucine è senz’altro una forma di “diplomazia dal basso” di grande efficacia.
In qualche caso il cibo però può anche fare da barriera, da muro, ad esempio quando diventa bandiera identitaria aggressiva. Se è sicuramente apprezzabile mantenere vive le tradizioni locali, bisogna anche sapersi aprire alla diversità culturale, che è una ricchezza. Pensate al piatto milanese più tipico, il risotto giallo: il riso arrivò dall’India ai tempi di Alessandro Magno, all’inizio un bene di lusso importato insieme alle spezie, come cannella, pepe nero e cardamomo, e poi fu timidamente introdotto dagli Arabi in Spagna e in Sicilia, per diffondersi relativamente tardi nel Ducato di Milano;

lo zafferano era usato da Greci e Romani solo come colorante e furono, di nuovo, gli Arabi ad introdurlo come spezia.

La leggenda vuole che un apprendista vetraio alle prese con le vetrate del Duomo di Milano venisse preso in giro perché usava tantissimo lo zafferano, appunto come colorante. Pare che gli dicessero “saresti capace di metterlo persino nel risotto!” e così, al matrimonio della figlia del suo maestro, il nostro garzone avrebbe detto ai cuochi di mettere appunto dello zafferano nel risotto. Il successo fu immediato e così nacque il famoso risott giald. Ma al di là delle leggende, è interessante che il piatto più milanese in assoluto, si basi su ingredienti un po’ indiani e un po’ arabi. Questa sì che è intercultura!

* Anche se, va detto, spesso la cosiddetta “cucina etnica” è tutto fuorché autentica, bensì si adatta ai gusti locali. Si pensi ad esempio alla cucina italo-americana, piena di piatti che nessuno ha mai visto in Italia.

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Francesco Bravin è un milanese imbruttito di origini friulane, dottore di ricerca in antropologia presso l’università di Genova, ha condotto una ricerca etnografica alle Cinque Terre sul ruolo dei prodotti tipici locali nell’immaginario turistico, dove si è dovuto sacrificare partecipando a tutte le sagre e le degustazioni di vino. Ha organizzato laboratori didattici in diverse scuole superiori a Milano, Brescia e Savona e al momento collabora come tutor didattico per le Scienze Sociali con l’università eCampus e con l’istituto Grandi Scuole. È presidente e fondatore dell’associazione Antropolis, che a Milano cerca di portare l’antropologia fuori dalla torre d’avorio accademica, nonché socio fondatore di ANPIA e, all’interno di questa, membro della commissione Scuola ed Educazione e del Consiglio dei Saggi. Nel tempo libero fa l’accompagnatore turistico, il biker e lo schermidore storico.