In una via non molto illuminata, poco lontano da piazzale Clodio, scorgo finalmente le vetrine di Almatò: non c’è ancora l’insegna – è una serata d’anteprima dedicata alla stampa – e l’impressione che ne ricevo dall’esterno è un po’ quella di chi osserva un quadro di Hopper: già mi piace. Vengo accolta da Alberto, uno dei tre giovani soci del locale, con un bicchiere di Franciacorta Brut Camillucci e faccio appena in tempo a scorgere le linee semplici ma funzionali del locale, i toni del legno chiaro, del blu pastello, del nero, che mi ritrovo davanti un vassoio di finger food: deliziosi canestrelli ripieni di polpo e patate e cracker di carote con bisque di gamberi.

Riprendo fiato e solo allora noto nell’arredamento un tocco dorato: in un busto dal sapore orientaleggiante collocato tra il bar e l’entrata, nelle posate e nella “ò” ricamata sui tovaglioli di lino, rifiniti con orlo a giorno…

Non vedevo tovaglioli così da quand’ero piccola e la mamma metteva a tavola il corredo della nonna! Mentre srotolo il tovagliolo, Alberto mi spiega che la “ò” è un omaggio a Tommaso, lo chef, nonché un altro dei tre soci. Il nome Almatò, infatti, è un acronimo formato dalle prime due lettere di ciascun socio: ALberto, MAnfredi e Tommaso (Alberto Martelli, Manfredi Custureri e Tommaso Venuti). Stasera all’appello manca solo Manfredi, il socio manager – il più anziano, dall’alto dei suoi 32 anni… – a Miami per lavoro. Sono curiosa di sapere come nasce nei tre soci la passione per la cucina e cosa c’entra il rugby con la gastronomia. Alberto mi spiega che tutti e tre provengono da famiglie legate al mondo della ristorazione; lui a quattro anni promette alla nonna che si occuperà del ristorante di famiglia e a diciassette fa già le chiusure; conosce i due amici sui campi da gioco come avversari; successivamente i tre ragazzi diventano compagni di squadra e cominciano a fantasticare finché il progetto di un posto tutto loro prende corpo e diventa realtà. Alberto ci tiene a precisare, però, che Almatò resterà aperto sei giorni su sette perché la domenica è sacra e si gioca a rugby!

Il suo ruolo in campo è primo centro, quello di Manfredi seconda linea.

Tommaso era pilone, ma ha smesso di giocare e – a quanto pare – senza rimpianti. Forse è vero, perché si illumina in maniera inequivocabile mentre compone i suoi piatti e spiega come li ha ideati. Tommaso ha alle spalle un bagaglio fitto di esperienze importanti, con Antonino Cannavacciuolo, Marcus Wareing, ex due stelle Michelin a Londra e, last but not least, Heinz Beck. Sempre a Tommaso e ai suoi studi di architettura si deve la progettazione del locale. Ma ecco arrivare il cappuccino… cioè sembra un cappuccino: in realtà è una composizione di spuma di cavolfiore, funghi e cremoso gorgonzola. Quello che stupisce è che arriva un sapore alla volta, una consistenza alla volta. I funghi tra l’altro sono trifolati, in gel e in polvere a simulare il cacao sul cappuccino, quindi si crea un gioco di consistenze nelle consistenze. Infine la sorpresa croccante della mandorla salata e il profumo del rosmarino che chiude sfumando il coro di sapori: un’esperienza pazzesca. Sono conquistata. A seguire scampi radicchio e radici, dove la sorpresa per me è la Rosa di Gorizia, un radicchio dolce e fragrante, consistenza e sapore in perfetta combinazione con lo scampo.

Ad accompagnare il piatto un Riesling trocken Basserman-Jordan 2018 molto particolare, con una nota quasi dolce.

Il piatto successivo è un omaggio alla cucina tradizionale romanesca: ravioli di coda erbe amare e salsa mirepoix, col sapore della carne che esplode appena si addenta la sfoglia fatta in casa e i minuscoli dadini di sedano e carote a dare la nota croccante. I ravioli sono accompagnati da un Borgogna biodinamico Roncevie Domaine Arlaud 2017: perfetto. È la volta del secondo: petto d’anatra patata viola cipollotto e lavanda, con le patate passate e poi messe sotto essiccatoio in modo da frantumarsi e richiamare – per colore e grandezza – i fiori di lavanda, effetto molto gradevole. E per questo piatto Alberto ha scelto un Chianti classico Gran Selezione Villa Rosa 2015… Che dire? Sono felicemente brilla! Manca solo il dolce: il Tiramisù al sifone di Tommaso, rigorosamente espresso e senza cacao sopra, perché a lui il cacao piace metterlo all’interno, su una crema di cioccolato e caffè…

L’abbinamento stavolta è un Verdicchio dei Colli di Jesi Passito ‘Brumato’ Garofoli, meno marcatamente dolce e più minerale, quindi fresco, davvero ottimo per chiudere, tanto che quasi quasi ricomincerei da capo!

È proprio vero che less is more! La cifra della cucina di Almatò sta proprio nell’essenziale: è bella da vedere, si compone di pochi elementi riconoscibili e di ottima qualità e gioca sulle consistenze: i vari elementi arrivano al palato uno alla volta in tante piccole esplosioni sorprendenti.
Le formule menu sono tante: si può ordinare à la carte o si può optare per menu degustazione a prezzo fisso escluso bevande da tre, cinque o sette portate; dal lunedì al venerdì ci sono le ‘formule pranzo’, di cui una ‘fast’ che consente di consumare il proprio pasto in una mezz’oretta con un benvenuto dello chef, un piatto a scelta e una bottiglia d’acqua al costo di 20 euro.
Che i tre ragazzi, abituati al campo da rugby, abbiano già avvertito il sapore della vittoria?
Per chi fosse curioso: non sarà necessario certo placcare gli avversari o gettarsi nella mischia, perché di posto ce n’è. Ad ogni buon conto, visti i 28 coperti all’interno (più un’altra dozzina all’esterno nella buona stagione), il mio consiglio è: prenotate!

M. Cristina Di Nicola, attrice e traduttrice, nasce a Teramo e vive a Roma ma ama la neve, il freddo e le aurore boreali, quindi un giorno chissà?  Appena può viaggia e se non può cammina – preferibilmente il mattino presto – in montagna, nei parchi, in città, ovunque!  Non ha mai smesso di stupirsi del mondo e prova a fermare la sua meraviglia con la macchina fotografica o con la penna. Golosa e curiosa, ha il culto del cibo, come elemento conviviale, culturale ma anche di puro divertimento.