Settembre è un mese duro.
Cacciatevi dalla testa tutta quella storia delle luci.
Il suo fluire verso l’inverno, morbido, rotondo.
I suoi spietati profili, spietati come le coltellate di un fendente. Tenete a mente questo.

Settembre è un mese esigente.

Ed è proprio quando la malia del mare si addolcisce ancora di più verso la risacca, il cielo abbraccia gli stormi e i colori assumono il fascino della maturità, della complessità, settembre ci interroga e noi restiamo spiazzati.
Settembre ci coglie impreparati.
Come ogni bilancio. Come ogni capodanno. Con il sottile guizzo di aver sbagliato. Di non aver centrato.
Con la paura di una fine che si aggancia a un inizio.


Le rondini se ne vanno e mi chiedo, se fossi stata una di loro, se sarei rimasta, o sarei andata via.
Si chiude la campagna, due righe di sbieco per dire punto e accapo. Anche se il punto spesso non riusciamo a piazzarlo.
Sono finite le pesche, la coda bastarda delle tardive magari ci ha dato l’ultimo affondo, le tardive sono costosissime da produrre, lo sapete? mangiano molto più acqua e cura, e poi te le ritrovi buttate in un negozietto qualunque a due euro e tu guardi a quanto le hanno pagate a te e ti chiedi tutti quei soldi chi se li è presi visto ché tu non li hai visti. E’ finito pure il grano, da ben prima, e l’incubo che ti prendesse fuoco, che si allettasse, che chissà che sciagura lo cogliesse, ed ora aspetti che la sciagura non sia quanto lo pagheranno, e quando.
E pure tutto il resto. Ma la ruota non si ferma, le potature a verde incalzano prima ancora che tu capisca se avrai o meno i soldi per farle, e lavorare i terreni e le nuove semine, e la raccolta delle ulive e quando c’era l’uva, i tagli, le muffe, le cooperative che non vendevano e non facevano conferire e tu che per la rabbia finivi per farti tamponare e rischiarci l’osso del collo. E i cieli, i cieli di settembre che ti portano via.

Settembre fa paura, come ogni cosa terribilmente bella.
Che capisci ti sta scorrendo dalle mani e non sai goderla.

Arruffata dietro pensieri, dietro paure, dietro il rancore di dover chiedere i soldi che ti spettano e non ti arrivano, di dover accettare i soldi che ti arrivano e sono un’elemosina e ci si guarda intorno e ci si guarda negli occhi.
Quegli stessi occhi che qualche settimana prima ho visto febbrili sui campi, nei filari, audaci di speranza, di orgoglio e che poi mi incontrano e di sfuggita mi lanciano una domanda, un perché, ed io non so rispondere. Perché continuare?
Questa è l’atrocità di questa terra: mi ha dato domande a cui non so rispondere. Domande che mi girano sull’anima ed io le scaccio via, come le mosche che a settembre perdono l’orizzonte.


Fra poco entreremo negli agrumi. E come un puzzo mi si riversano addosso tante campagne agrumicole. Non vi dico niente delle trattative, ognuno ha le proprie. A volte la festa dell’Immacolata la passavo a fare e disfare trattative. I commercianti di agrumi sono bravi.

Hanno i suv.
Tanti hanno i suv.
Alcuni gli occhiali a specchio.
Qualcuno l’auricolare.
La pancia non tutti.
Il pelo sullo stomaco molti.

Non è la fine del mondo. Basta capirlo. Basta far sì che non ti infrangano un mondo. Che non lo infanghino. Quello trasparente e pulito.
Però si vogliono bene, loro, fra loro, si vogliono molto bene. Talmente bene che quello che ti dice uno ti dirà anche l’altro e l’altro ancora, si chiama cartello, o come volete voi (io un altro nome lo avrei).


Ecco: funziona. Fino a quando poi non ti salta la pazzia e glielo strappi davanti. Davanti ai loro occhi irretiti. Lo strappi, quel maledetto cartello. Come una scheggia impazzita, una vampata incontrollata. Gli agrumi possono restare dove sono: sulla pianta. Non hai fretta di vendere. Ma , di più, non hai voglia di regalare a loro il tuo lavoro e tuoi rischi. Il tuo futuro e il tuo mondo. Le promesse che hai fatto e la fiducia che ti hanno riversato. Lo capisci un giorno che non dimenticherai mai, mentre tiri fuori i panni da una centrifuga feroce, come la stessa cui hanno sottoposto per giorni e giorni i tuoi pensieri, le tue ansie le tue paure. E lanci forte dall’auricolare la fine di questa farsa che prevedeva una vittima sacrificale: non venderai, non svenderai a qualcuno che a ogni proposta abbassa ancor più il prezzo con la certezza che dovrai cedere, dovrai sfiancarti, dovrai cercare di salvare il salvabile e nessuno ti aiuterà a farlo, nessuno si farà avanti al suo posto, nessuno mostrerà interesse alle tue proposte, perché il cartello è cartello ed è un patto fra maliuomini. Ma tu hai tanti amici a cui fare spremute. Non cederai, anche se il prezzo fosse sparire. Lo farai con le tue mani, non con le loro.

Per avere un nuovo mondo devi sempre uccidere il vecchio. Insieme non ci possono stare.

Forse questo nuovo mondo arriverà e sarà molto buono, come quello di chiunque ha visto le sozzure e le brutture ed ha voluto risalirle.
A settembre stiamo un po’ tutti così. Sospesi.
Sospesi fra il vecchio e il nuovo. Fra i raccolti e le semine. Fra le albe e i tramonti e ci sembra che questi estremi siano più vicini di quanto ce lo ricordassimo, di quanto ci servirebbe per capire questi giorni come viverli, se appesi a una speranza o a un rancore. A settembre si decide cosa estirpare e cosa coltivare, cosa seminare e cosa lasciare arido, a settembre si capisce se si vuole continuare a provare a cambiare qualcosa, o lasciarci stare.
Settembre non vuol lasciare andare via l’estate. E’ un mese duro. Come tutti quelli che non vogliono lasciar andare.

Foto di copertina: Nazar Hrabovyi on Unsplash

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Sono nata in Calabria, sono avvocato e lavoro in un’azienda di famiglia incuneata fra il Pollino e lo Jonio dove l’aria austera del monte si immischia alla salsedine del mare, il che spiega quel senso di vertigini salate che, da sempre, il mio lavoro mi ha trasmesso. Mi piace masticare l’olio, i frutti e le parole. Credo che, in fondo, un nesso stretto ricomponga percorsi, storie, vissuti e mondi che distano apparentemente molto fra loro. E’ quel nesso che segna la mia ricerca.Amo gli orizzonti ampi, le parole scarne, i rapporti umani essenziali, in sintesi pecco di eccesso di sintesi e, questa colpa, me la porto anche nel mio succinto curriculum.
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    Se qualcuno mi avesse chiesto quale fosse il mio lavoro avrei detto: mantenere quel mondo.
    I suoi volti, le sue strette di mano, le sue voci, le sue parole. Mantenere quel mondo, la sua disperata, disarmante, onnivora bellezza.
    Perché non c’era posto per altro, come di fronte all’infinito.

  • Ricordi di Settembre…

    A settembre stiamo un po’ tutti così. Sospesi.
    Sospesi fra il vecchio e il nuovo. Fra i raccolti e le semine. Fra le albe e i tramonti e ci sembra che questi estremi siano più vicini di quanto ce lo ricordassimo, di quanto ci servirebbe per capire questi giorni come viverli, se appesi a una speranza o a un rancore. A settembre si decide cosa estirpare e cosa coltivare, cosa seminare e cosa lasciare arido, a settembre si capisce se si vuole continuare a provare a cambiare qualcosa, o lasciarci stare.

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