Certe volte fa freddo alla testa.
Quando fa molto freddo.
Quando il freddo fa parte dei giorni, delle stagioni, degli anni. E così vorresti coprirti i pensieri, avvolgerli, riscaldarli, rianimarli da un lungo gelo.
Allora vorresti andartene in giro con il berretto in casa, di verghiana memoria , a coprirti per scacciar fuori ciò che ti assale e ghiaccia.
A volte fa freddo.
Quando ci sono meno tre gradi si fa fatica a buttarsi dal letto, soprattutto se è presto, se ancora nel dormiveglia pensi che la giornata sarà lunga, troppo se inizia a quest’ora, troppo se porta incontri che non vuoi.
Certe volte ho freddo ai pensieri. E si rattrappiscono, si rinsecchiscono, diventano piccoli e brutti e manca un cuore che li scaldi. Ma non c’è posto. Né modo e maniera di scaldarli.
Certe volte fa freddo e quando scendi dalla macchina e il Pollino è innevato il freddo ti passa e vorresti correre come quando ti inseguivano palle di neve e infischiartene del resto.
Tutto il resto fa freddo.
Siamo a gennaio e l’annata ha tirato lungo. Ha tirato così a lungo da lasciarci con il fiatone. Senza domeniche e feste e perfino una vigilia strappata di forza. La pioggia continua ha fatto tardare le semine, e poi l’acqua ha stagnato e noi come sentinelle vigili ad aspettare il sole, il vento, qualcosa che, oltre la nostra forza e la nostra ostinazione, asciugasse i terreni.
Certe volte fa freddo. Assai. I terreni finalmente allineati hanno accolto il seme. Mi guardo intorno e non voglio nemmeno guardarli, è solo il primo passo. Il primo, il primissimo passo. Anzi il secondo. Anzi il terzo. A voler essere esatta il quarto.
Da quanto tempo? Un anno. Un anno. 12 mesi. Più quelli che richiederà per germogliare e poi tutte le fasi e la trebbia e ciò che sarà. E questi mesi che si scioglieranno come interminabili, intermittenti fra paura e speranza. E quelli passati pesano come una gestazione complessa.
E la fatica, la fatica, la fatica ci mangia.
Ci consuma ci macera, come quei chicchi lì, che diventeranno qualcosa di buono e sano. E la nostra fatica cosa diventerà?
Resterà freddo?
Perché la fatica di reggere risucchia le nostre energie e lascia freddo, lascia intorpiditi e immobili.
Privi di emozioni. Protesi solo in difesa.
Ma chi lo sa tutto ciò? Quanti mangeranno tutto ciò senza saperlo. Senza sapere i pensieri spesi, le parole ragionate, i chilometri macinati, le notti attraversate e il freddo. Il freddo incamerato.
Passo i campi e ho paura di guardarli.
Ogni tanto mi prende così. Ho paura di guardarli, di guardare cosa significano, cosa aspettano, chi sono.
Sono una manciata di uomini che non ha tregua e che mi chiedo perché ci spera.
Arrivo al campo di fave ed anche qui volto lo sguardo: la paura spesso non ci consente di guardare.
Al di là 2 piantine seminate dai corvi, precoci, e il gelo che non le ha rubate: mi porge 5 baccelli, li apro con cura, come il più bel dono, come una sorpresa, come una cosa preziosa e inaspettata. Ho fame.
Ho fame che l’inverno finisca.
In bocca il sapore è dolcissimo e conciliante.
Ha il respiro della terra, pacato e caldo. Ha il dolce dei tramonti e delle albe. Ha quei riflessi che si sciolgono sulle pendici del Pollino innevato, che accarezzano i passi più brulli, che attraversano i colori cangianti.
Vorrei fermare quest’attimo caldo.
Ritorno in macchina, in città mi aspetta il commercialista, la banca, i dati, le tabelle, i calcoli, la dannata feroce rabbia di sbatterli in faccia al mondo. Ai TG, le mode, i caporalati, la gdo, i sindacati, il governo, i falsi agricoltori, quelli che comprano manciate di credibilità e notorietà, quelli in campagna elettorale, quelli che ci sosterranno per vederci morire.
Arrivo puntuale e trafelata. Da loro fa caldo. Mi scappa da ridere: veste cerchi concentrici che mi ipnotizzano, si chiudono tutti perfettamente per come i miei restano sempre aperti: ha lo sguardo di chi, il freddo, lo ha visto solo al di là della propria scrivania.
La dolcezza delle fave riaffiora … peccato fossero solo 5.

  • Articoli
Sono nata in Calabria, sono avvocato e lavoro in un’azienda di famiglia incuneata fra il Pollino e lo Jonio dove l’aria austera del monte si immischia alla salsedine del mare, il che spiega quel senso di vertigini salate che, da sempre, il mio lavoro mi ha trasmesso. Mi piace masticare l’olio, i frutti e le parole. Credo che, in fondo, un nesso stretto ricomponga percorsi, storie, vissuti e mondi che distano apparentemente molto fra loro. E’ quel nesso che segna la mia ricerca.Amo gli orizzonti ampi, le parole scarne, i rapporti umani essenziali, in sintesi pecco di eccesso di sintesi e, questa colpa, me la porto anche nel mio succinto curriculum.
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    A volte fa freddo…

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    I suoi volti, le sue strette di mano, le sue voci, le sue parole. Mantenere quel mondo, la sua disperata, disarmante, onnivora bellezza.
    Perché non c’era posto per altro, come di fronte all’infinito.

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    A settembre stiamo un po’ tutti così. Sospesi.
    Sospesi fra il vecchio e il nuovo. Fra i raccolti e le semine. Fra le albe e i tramonti e ci sembra che questi estremi siano più vicini di quanto ce lo ricordassimo, di quanto ci servirebbe per capire questi giorni come viverli, se appesi a una speranza o a un rancore. A settembre si decide cosa estirpare e cosa coltivare, cosa seminare e cosa lasciare arido, a settembre si capisce se si vuole continuare a provare a cambiare qualcosa, o lasciarci stare.

  • Una ruotata
  • Siamo incudine
  • Il Tempo che coltiviamo per voi
  • Limitrofi