di MARILENA BUCCELLA

Il vino non è solo bevanda, non è qualcosa che passa in noi lasciandoci più o meno così come ci ha trovati. Il vino è un elemento vivente, con un suo proprio ciclo di nascita, giovinezza, maturità, vecchiaia e morte. E’ un compagno di strada che, come dice la bella canzone di Davide Riondino, silenziosamente ci aspetta senza avere fretta, legandoci, come in una danza, al cielo da una parte, alla terra dall’altra. Quando ci incontra, ci trasforma, ci cambia. Dialoga con noi nel profondo, con le nostre emozioni, con le nostre passioni.

Per anni ho lavorato in un Archivio di Stato e ricordo ancora la meraviglia quando, nei miei polverosi pomeriggi trascorsi a catalogare e inventariare gli atti estratti dai protocolli notarili del Settecento e dell’Ottocento, mi capitava tra le mani la compravendita di un vigneto o di un pezzo di territorio vitato. Bastava un istante e sulla scrivania brillava uno dei coloratissimi termini che designavano le uve antiche, bastardello, cerasuolo, greco e grechetto; improvvisamente le pagine grigie si illuminavano di vento, luce, sole, pomeriggi caldi e colline, e assaporavo il senso di condivisione che accompagnava le vendemmie.

Allora, per conoscere meglio la storia del nostro amico vino, voglio tornare tra quelle antiche pagine e quegli antichi decenni per ricostruire qualche pezzo della sua esistenza. Lo faccio per la zona dove vivo, ma potrebbe essere uno spunto – come già, del resto, si è già verificato – per le terre del Lambrusco, del Barolo, del Montalcino, per le Langhe, la Valpolicella, la Franciacorta e così via.

In questo breve articolo ho scelto una precisa unità di tempo e di luogo. Il tempo è quello della seconda metà dell’Ottocento, quando si è cominciato a guardare alla produzione di vino su una scala un po’ più ampia di quella della mensa domestica, per valorizzarlo e commercializzarlo. Il luogo è la Capitanata, una delle 14 Provincie in cui era diviso l’ex Regno delle Due Sicilie. La mia fonte e guida sarà una delle tante relazioni della Reale Società Economica, la quale ha per oggetto lo stato dell’Agricoltura e della Viticoltura in Capitanata. Essa è uno dei tanti rapporti che venivano periodicamente resi al Ministro dell’Agricoltura e del Commercio dell’epoca.

Nell’ambito delle nuove idee dell’Illuminismo erano sorte un po’ ovunque, in tutta la penisola e sotto tutti i regimi politici, le Accademie Agrarie e Commerciali e per lo Stato Borbonico vi era una Reale Società Economica in ciascuna provincia del Regno. Nel Capoluogo vi era la sede con il Presidente e il Segretario, ma i membri erano capillarmente inseriti nel tessuto della società, nei vari Circondari, ed erano uomini colti e illustri, medici, studiosi, agronomi, farmacisti, geografi.

I soci si riunivano periodicamente in assemblee dove riportavano osservazioni e memorie su argomenti specifici elaborando dei reportage tecnico-scientifici dal loro territorio di competenza.

Il campo degli studi e degli interessi era molto ampio ed aveva come tema base quello delle condizioni agrarie, economiche e produttive della provincia, lo sviluppo della produzione, l’introduzione di innovazioni e metodi scientifici.

Le materie erano molteplici: agricoltura; viticoltura e vinificazione; introduzione di nuovi macchinari; apicoltura; frutticoltura; orticultura; caccia e pesca; movimenti commerciali; fabbriche; prezzi e mercati; allevamento del bestiame ed esercizio della veterinaria; industria pastorale; commercio della lana; sericoltura bachi bozzoli e seta; silvicoltura e stato dei boschi; studio del clima con l’applicazione dei primi metodi statistici, introduzione di premi a coloro che si distinguevano nella produzione.

Nella mia fonte, la relazione per il 1870 da parte di De Angelis, Presidente della Società di Capitanata, si ha un preciso resoconto di come si impianta un vigneto.

Il tipo di vigna è denominato a vite latina, che è un tipo di vite bassa, poggiata su piccoli sostegni o anche priva di qualsiasi sostegno. La scelta del terreno su cui impiantarla ricade quasi esclusivamente sui terreni calcarei. Il punto di partenza è quello della preparazione del fondo.

Si comincia dallo scavare un fosso largo circa due metri e profondo un metro e si prepara poi una specie di piccola conca, che viene chiamata scazzetta dentro la quale si mettono a dimora, curvandole un po’, le cosiddette barbate o magliole, cioè i germogli da piantare. Questa operazione si ripete per un altro fosso che ospiterà altre due magliole e così di seguito, continuando fino a riempire un canale di trenta piante. Si procede per un’altra linea parallela, anch’essa composta di trenta viti.

Completato anche questo secondo fossato, se ne scava un terzo, sempre rispettando la distanza di un metro, e si prosegue fino ad ottenere altre trenta conche, con le relative piante. Si coprono dunque le piante con il monticello di terra rialzata dai fossi, che si chiama cavallo. Si tira quest’ultimo tra gli interstizi delle viti messe a dimora fino ad arrivare a una messa in posa di 900 viti che viene chiamata pezza.

Per riempire le conche scavate, si scelgono due sole gemme, belle e robuste, che da novembre a gennaio saranno accuratamente zappettate per estirpare le erbe cattive. Nel secondo anno di vita il giovane vigneto dovrebbe dare gemme vigorose, che sono denominate teste ed è per questo che l’intera operazione viene detta intestazione di un vigneto.

A questo punto, se il tralcio è robusto, lo si pota per bene, lasciando una sola gemma novella, ma se il tralcio non mostra una sufficiente vigoria vuol dire che la pianta ha bisogno di mettere radici ulteriori e si aspetta un terzo anno per procedere all’intestazione del vigneto. E’interessante notare la raccomandazione, in questo caso, a non toccare ferro e ad aspettare con pazienza i ritmi vitali della pianta.

Giunti al terzo anno il viticoltore comincia ad avere il frutto sperato: esso sarà sempre più abbondante, crescendo e migliorando nel corso degli anni. Egli continuerà a svolgere le operazioni di zappettatura e pulizia sempre da novembre a gennaio e in ogni nuova annata, a preparare le conche a sbarra e i pastini intorno alla vite.

La zappatura si fa seguendo due distinti metodi: 1. la zappatura a cavallo consiste nel lasciare un monticello di terra tra una vite e l’altra, in modo da pervenire alla formazione di un argine lungo l’ordine delle viti; 2. La zappatura a cacalupo, con la quale il terreno viene zappato e preparato in profondità e ammonticchiato tra una vite e l’altra. Quest’ultimo metodo è il più comune ed usato nella Provincia di Capitanata, e per lo più nei comuni e Circondari di Foggia, Torremaggiore, Candela, Vico Garganico, Castellana, Trinitapoli, Ortanova.

Riguardo alla vinificazione non ci sono molte osservazioni da fare: essa si attua secondo i metodi antichi che consistono nel raccogliere le uve di ogni colore e qualità, nel pigiarle, sottoporre a torchio le vinacce e preparare la fermentazione senza eccessiva cura e diligenza. Nonostante ciò, il vino viene forte e poderoso, però non regge l’annata e spesso non è bevibile a mensa perché soverchiamente alcolico e sulfureo.

La vinificazione conclude il relatore, come si vede dalle descrizioni, non ha avuto finora molte cure, né metodi precisi, in quanto il vino non era ritenuto un elemento commerciabile, ma nel futuro si pensa di far meglio e ogni anno si presenteranno nuove osservazioni a riguardo. Si è destato, infatti, un vivo interesse da parte dei produttori specie dopo alcune conferenze tenutesi un provincia in occasione dell’esame dei vini da parte della Reale Società e della Camera di Commercio.

Tali indicazioni hanno consigliato di evitare l’ibridismo, selezionando i tipi di uva e protrarre la fermentazione per renderla più forte ed evitare l’eccessiva proprietà inebriante. Le conferenze tenute in provincia hanno introdotto i nuovi concetti di trasmutazione e chiarificazione del vino, cosicché molti nuovi vigneti sono stati impiantati, anzi intestati ed è in atto un’accresciuta diligenza accompagnata, finalmente, da un’apertura al commercio del prodotto.

Foto di Hermes Rivera su Unsplash

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