Archivio Storico 2011-2017

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Nico Orengo, “Il salto dell’acciuga”

15 Marzo 2011
Sognar la bagna caoda...
Forse ricorderete la leggenda di quel trovatore, Jaufré Rudel, che si innamorò della contessa di Tripoli solamente per averne sentito parlare: ecco, per me la passione per la bagna caoda nacque proprio dal racconto estatico che mi giunse dalle labbra del mio fidanzato, piemontese da parte di madre. Da allora non feci che leggere e sognare questa benedetta bagna caoda, che mi era stata decantata come l’ottava meraviglia della cucina italiana, fino a che una sera, poco di prima di impalmare il futuro marito gourmet, lo supplicai di portarmi a cena in un ristorantino torinese noto per come la si preparava: e fu, è il caso di dirlo, amore al primo assaggio.

Quella serata fu la riconferma non solo dell’amore incondizionato del mio cavaliere, disposto a macinarsi chilometri al termine di una giornata di lavoro pur di accontentare il mio capriccio, ma anche delle più ardite tesi sull’amor cortese di cui mi nutrivo a piene mani, compresa appunto quella per cui la fama di cose e persone mai conosciute può alimentare un sentimento di nostalgia struggente: l’unica variante personale era che applicavo questa teoria erotica… alla gastronomia!

Il mio intuito, inconsapevolmente, mi aveva suggerito un argomento molto interessante. La bagna caoda, in effetti, alla Provenza di Jaufré era indissolubilmente legata, anche se non propriamente alle corti trobadoriche. Avrei dovuto macinare qualche anno e soprattutto qualche libro in più per capirlo. Fu così che, un paio di mesi fa, dopo tanti anni, tornata con mio marito a Torino per certi suoi affari di lavoro, e spulciando fra i bouquinistes di Porta Susa, ebbi una folgorazione: mi trovai in mano il “Salto dell’acciuga” di Nico Orengo e per soli 4 euro e quaranta centesimi acchiappai un vero tesoro.

Nello stesso periodo in cui io mi innamoravo da lontano della bagna caoda, l’indimenticato scrittore torinese (morirà nel 2009, una dozzina di anni più tardi) scriveva il romanzo che sarebbe diventato una pietra miliare per gli appassionati della storia del commercio delle acciughe nel mar Ligure. Studioso di storia gastronomica e di tradizioni locali, Orengo intercala nel suo libro la voce senza tempo dei pescatori e degli abitanti dei paesini dell’entroterra, di coloro che mettono sotto sale le acciughe nell’arbanella e di quelli che le trasportano con i carretti (i caross d’ancioe); e con i suoi amici, che siano pescatori come il Giga o il Rebissu, statisti, pittori, musicisti (come De André), linguisti o letterati, intesse conversazioni e allaccia dibattiti sul tragitto dell’acciuga salata e sull’origine della bagna caoda, quasi sempre all’interno di un quadro conviviale.

Estremamente suggestivi, ad esempio, sono i passi dei pescatori intenti alla preparazione della salsa sulla spiaggia: nel paiolo, ardente sopra un focolare di fortuna, sbriciolano “un po’ di olio, aglio e rami di finocchietto, un pugno di acciughe”, girando con un ramo di canna e intingendo pomodori a spicchi o qualche povera verdura portata in barca per il desinare. Un mangiare da re o da pescatori? Questo è il dilemma. E se liguri sono i pescatori, l’aglio è provenzale: che sia quello rossastro e delicato di Cap D’Ail, o quello forte e più antico di Marsiglia, è solo questione di gusti. Appeso nelle lunghe trecce agli angoli della cucina, si carica degli odori di capra, coniglio, agnello “passati per le pentole”, ed è un ingrediente fondamentale della bagna. L’olio è ligure, ovviamente, ma c’è chi sostiene che in Piemonte la si preparasse già nella notte dei tempi con l’olio di noci.

Ma dove nasce in fin dei conti, la bagna caoda: in Provenza, Liguria o in Piemonte? Ed è sufficiente dire che le acciughe arrivano dal mare per fare di questa salsa una parente stretta del nobile garum latino, solo realizzata con pesce integro conservato sotto sale anziché con il liquame colato dalle interiora e sottoposto a fermentazione? Fosse stato così, si chiede Orengo, la bagna sarebbe stata menzionata nei ricettari altolocati: invece ancora in “due buoni testi, due classici, della cucina piemontese, di quella antica” come gli ottocenteschi Vialardi (cuoco di casa Savoia) e il Cuoco Piemontese, la si cita giusto di striscio, evidentemente piatto troppo plebeo per essere eletto fra le pietanze del desco dei nuovi sovrani d’Italia (che evidentemente la conoscevano bene ma avevano troppo timore di sbandierarla troppo di fronte alle corone europee). Solo di recente, in effetti, con la rivalutazione della cucina povera e territoriale, i ricettari le conferiranno uno status di grazia: primo fra tutti lo studioso astigiano Giovanni Goria, che ne diffuse il culto e l’atmosfera negli anni Novanta del XX secolo, e, appunto, Orengo con il suo “Salto dell’acciuga”. Ma prima di allora, quasi il dimenticatoio letterario.

La questione, comunque, rimane solo apparentemente aperta. Orengo infatti arriva ad ipotizzare una conclusione tanto romantica quanto sorprendente: potrebbero essere stati i feroci Saraceni, stanchi di secoli di scorribande in Provenza e ansiosi di integrarsi definitivamente, convertendo le loro forze brute nel commercio dell’acciuga, a diffondere nell’entroterra il “sugo” dei marinai. Divenuti un po’ acciugai e forse un po’ di più contrabbandieri di sale, per ingannare i gabellieri regi riempivano barilotti di sale e li coprivano con uno spesso strato di acciughe da vendere ai pellegrini per Santiago de Compostela, così come si fa coi funghi poveri coprendoli opportunamente di porcini. Da qui, il salto dell’acciuga in Piemonte, e anche della bagna caoda.

“La memoria è come una goccia d’olio buttata nell’acqua. Può scomparire per un istante ma poi se ne torna su, sta lì, galleggia come uno sguardo su ciò che è stato”, sentenzia Orengo. Così la “bouillabaisse povera”, così come la chiama ironicamente un pescatore, risale i passi appenninici e si diffonde in tutto il territorio piemontese, caratterizzandone la cucina. E i mediatori culturali sono, all’alba del primo Millennio, quegli stessi Arabi che, nello stesso momento, diffondevano la loro letteratura amorosa influenzando la futura lirica romanza a carattere erotico. E qui, finalmente, il cerchio si chiude.

Rileggiamo questa bellissima pagina tratta dal Salto dell’acciuga”. Il protagonista chiede al suo amico Vasco di preparagli una bagna caoda come si deve e intanto discutono della sua origine.

“Da tempo Vasco voleva portarmi verso Cuneo a cercare un acciugaio che da ragazzo girava i paesi con la bicicletta e il suo barattolone legato al portapacchi, dietro al sellino.
- Prima, - gli ho chiesto, - fammi vedere come si fa una bagna caoda.
Sono andato in cucina, a casa sua, in via Casteggio, dove una volta abitavo nell'alloggio dove ora sta lui. Mi fa vedere un mucchietto di acciughe belle grassottelle. - Piú le lavi e meno forte rimane la bagna, - dice. - Se son buone le devi spaccare longitudinalmente, ricorda. Devi metterle per una decina di minuti in un piatto fondo coperte d'acqua e un po' d'aceto di buon vino. Perdono sale e si sgrassano leggermente. Poi l'aglio. Se ce l'hai di Cap d'Ail, quello rosato, meglio. Una testa a persona. Togli per bene la pellina e anche l'anima, che fa solo pesantezza di stomaco. Poi ti prepari le verdure. Il cardo, di Nizza Monferrato, è il più delicato. Lo tagli e lo tieni a bagnomaria in acqua e limone perché non ossidi. Fai lo stesso anche con i topinambur. Ricordati le foglie del cavolo, quelle vicine al cuore e ricordati di prendere, a Porta Palazzo li trovi, i peperoni sotto raspo d'uva, lavali con cura. E lava bene le barbabietole. Fai cuocere una cipolla al forno, con la buccia, che peli dopo. Ci vuole anche una bella noce, senza pelle. Per levarla si butta nell'acqua bollente e poi sotto il rubinetto della fredda. Poi pesta bene la noce.
Vasco prende le acciughe dal piatto, le apre, le lava ancora sotto l'acqua fredda e poi le asciuga su fogli di scottex. Si avvicina a una terrina e ci versa due bei bicchieri d'olio e una noce di burro.
A questo punto ci versa la noce tritata e accende a basso fuoco. Con una paletta di legno amalgama olio, burro e noce. E ci lascia cadere con religiosità le acciughe, una per volta e gira con polso di velluto. A parte ha fatto bollire nel latte l'aglio e ora, che è freddo, dopo averlo asciugato, lo schiaccia con il palmo della mano e lo butta nella terrina.
- Ti faccio una bagna delicata, - dice.
E continua a girare, ad amalgamare. Tiene il fuoco ancora per un quarto d'ora, poi dice che è pronta.
Ci sediamo a tavola, con la terrina di fronte.
Vasco ci intinge un pezzo di pane. - Non male, - dice.
Non è il «brodo» di Ernè, ma il suo ricordo è forte.
Dico a Vasco che la bagna caoda viene dalla Liguria. Ride. Gli dico che poco prima di Natale l'abbiamo mangiata a Dolceacqua. E che non credo che sia solo la presenza di «foresti» torinesi ma anche di un ricordo tornato alla memoria, dopo secoli. Cosi, all'improvviso.
Vasco è scettico. - In Piemonte la facevamo già con l'olio di noci.
Io penso ai Saraceni di Moschiéres, al fumo dei loro camini che sapeva d'acciuga e aglio.” (Pag. 45-46)


Nico Orengo, Il salto dell’acciuga
Einaudi, 1997 e 2003
77 pagine, 8, 80 euro
primi sui motori con e-max.it
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