Archivio Storico 2011-2017

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Il Risotto alla bosina

07 Febbraio 2011
La vera tradizione varesotta
Se c'è una pietanza nella quale Varese e il suo territorio si identificano, e che ricorre in quasi tutte le festività, questa non può che essere il risotto, eguagliato per importanza forse solo dalla polenta. Noi bosini – così come veniamo chiamati, dalla contrazione di ''ambrosini'', cioè abitanti della diocesi e del contado milanese – abbiamo infatti una solida tradizione di risotti, che nascono dal territorio, si sposano alle stagioni e si legano a diverse occasioni scandite dal calendario, dalle riunioni di famiglia, dalle serate con gli amici.

Il risotto è il cavallo di battaglia della sposina varesotta. D’altra parte, preparare un buon risotto non è per nulla complicato, ma se non si seguono con pazienza antica tutti i passaggi della preparazione si rischia di fare solenni figuracce (solitamente ammortizzate dal marito ma meno dalla suocera di turno). Varrà la pena quindi di ripassare insieme il percorso che ci porterà al meraviglioso e fumante risutin all’onda che fa impazzire grandi e piccini (e che è stato giustamente immortalato nel bellissimo “Non piangere cipolla” del varesotto Roberto Piumini, uno dei massimi scrittori italiani per l’infanzia, che evidentemente per questo piatto coltiva un’autentica passione).

Prima di tutto ci si dimentichi del dado o dell’estratto. Un buon brodo è alla base di un risotto spettacolare e prepararlo non ci costa nessuna fatica se non quella di scegliere i tagli giusti di carne o di pesce (solitamente lische e teste) e gli odori ideali, possibilmente tenendo sul balcone una scelta di erbe aromatiche nostrane: timo, mentuccia, erba scigulina. Volendo procedere bene, per un risotto saporito come quello alla lüganega o al salame prealpino si useranno cosce di pollo e un pezzo di reale; per un risotto di lago come quello col persico (che i comaschi ci contendono con vivaci argomentazioni) gli scarti del pesce; per una preparazione alle verdure (come quello alla zucca) ci vorrà un brodo leggero di pollo. Sempre brodo di pollo per i risotti con i caprini più o meno stagionati e le tome d’alpeggio, la furmagina o anche l’ottimo gorgonzola, che è sempre uno spettacolo da usare come mantecatura (forse la sposina non saprà che la bassa varesotta è terra di gorgonzola da sempre, e che questo prodotto ha conquistato la DOP per l’intera filiera dal 2009). Sempre brodo di pollo, ma leggerissimo, per il risotto con le mele e quello con le fragole, quest’ultimo di ispirazione liberty, che trionfa nell’architettura cittadina, preziosa e nostalgica. Assolutamente da sfoderare come asso chic nella manica, ovviamente nella stagione adatta, a maggio, periodo anche degli asparagi: un vanto assoluto del territorio bosino e precisamente del circondario di Cantello, paese dove si svolge da ben settant’anni l’omonima fiera dedicata al pregiato asparago rosa.

Presa dimestichezza coi brodi fondamentali, che devono essere tutti profumati con gli odori (cipolla, prezzemolo, timo, sedano, due-tre chiodi di garofano) e leggermente salati (un cucchiaio raso di sale per circa tre litri di brodo), potremo sperimentare la versione più leggera per i delicatissimi risotti delle fate, che popolano i fitti boschi bosini. Con un delicatissimo distillato di pollo si tireranno risotti con l’erba cipollina e coi mirtilli, tipici il primo della Valganna, il secondo della Bregazzana, o quello con i porcini di Orino, fino all’impennata trionfale del risotto con le lumache, riservato ai veri intenditori di cucina nostrana.
Scelto dunque il suo brodo, la sposina deve avere bene in mente che non esiste risotto senza soffritto, o almeno risotto bosino. Il trito moderno e classico al tempo stesso è quello di scigula imbiondita nel butèr, che il bustocco Fontana - padre di tutti i moderni risotti milanesi - sbirciava nella cucina della cuoca Gina: ve lo consiglio tranquillamente, pur col tocco magico di un goccino d’olio, ma proprio un goccino, per alzare il punto di fumo del burro. Dovete però sapere che nonne varesotte d’altri tempi avevano un passepartout della pentola, il famigerato pestò dul lord, che preparavano al pomeriggio sul tradizionale asse concavo nel mezzo (l’as du lord, appunto), e che serviva non solo come fondo per il minestrone, l’arrosto, il coniglio e chi più ne ha più ne metta, ma anche per il risotto. Si trattava di una sapida poltiglia di lardo casereccio, aglio, cipolla e prezzemolo, alla quale, sfrigolante nel padellone, non aggiungevano alcun grasso di cottura: l’olio era decisamente per originali e così pure il burro, riservato alla mantecatura dei piatti della festa. Inutile dire che il risotto ne riceveva un sapore pregno, bosino appunto, un sapore oggi molto difficile, impossibile direi, da ricostruire, se non nei nostalgici aneddoti dei vecchi, che il lardo se lo facevano direttamente in casa anziché comperarlo al supermercato.

Ma torniamo a noi. Chiusa l’operazione del soffritto, ci si deve tostare il riso per qualche minuto, per impermeabilizzarlo un tantino. Oggi come allora, nelle case bosine, fosse anche il giorno della festa, non si sceglie un riso pregiato come il Carnaroli o l’Arborio, ma un più umile Originario, o un Padano. Sono risi piccoli, economici, tondeggianti e molto amidacei, e che quindi legano benissimo senza inciampare alla fine in panne o collanti spuri che sopprimono i sapori e raffreddano il piatto, che invece dev’essere portato in tavola sempre bello fumante. Del resto, se si hanno bambini in casa, il chicco piccino è il più adatto a loro: fa tanto mamma, cuoce bene all’interno – i piccoli odiano il riso al dente – ed arriva presto alle bocche, senza che nell’attesa interminabile si scatenino disperazioni, capricci e si consumi tutto il pane messo in tavola (per un bambino i tempi si dilatano a dismisura, e quattro minuti possono fare veramente la differenza!).

Andiamo avanti. Sfumare il risotto è indispensabile, e a Varese tanti lo fanno con la birra, altro prodotto nostrano e antico. In alternativa, si può usare un bicchiere di bianco secco, visto che eravamo, e fortunatamente stiamo ritornando, anche terra di vini. Mai però si usi il rosso, indispensabile invece per condire il piatto dell’anziano di casa quando si porta in tavola il risott con la lüganega: qualche cucchiaio di vino versato nella fossetta del risotto, come fosse una benedizione.

Tirare la cottura, anche questa è un’arte, ma povera direi; e anzi, se con l’esperienza si calcola bene la quantità di brodo per le dosi di casa, lo si può fare in metà tempo e in un colpo solo anche nella pentola a pressione, con identici risultati. Io, dal canto mio, sono rimasta della vecchia scuola, per cui mi vien meglio il risotto cotto mestolo dopo mestolo (ovviamente col brodo ben filtrato). Ad ognuno il suo metodo. L’importante è curare che il risotto non attacchi mai se non leggerissimamente (e quel poco di risotto attaccato è sempre una prelibatezza per i bambini, diciamocelo).

Per finire in bellezza, vi giro un piccolo trucco che mi ha insegnato mia madre quando ancora iniziavo a compiere i primi passi in cucina, a dodici anni (io ormai ho cinque figli all’attivo, ma cucino sin da quando ero ragazzina, perché mia madre lavorava e del desco dovevo quotidianamente occuparmi io). Si spegne il fuoco quando il riso è ancora leggerissimamente al dente, si manteca col burro e col grana (il furmagg da grana, raro un tempo, e sostituito da tome invecchiate e grattate), si incoperchia e si lascia lì il tempo della preghiera. Prima di portarlo in tavola, nel pentolone per fare più festa - se si è in confidenza, ma anche se non lo si è: quante storie! – siccome si sarà un poco asciugato nel frattempo, si aggiunge ancora un mestolo di brodo per farlo tornare bene all’onda.

Un’ultima considerazione. Volutamente non ho scritto dosi in questa chiacchierata, che voleva semplicemente essere una presentazione molto casalinga del risotto delle mie parti. Di volta in volta, parlando delle preparazioni di stagione (cominceremo coi risotti di grasso) aggiusterò le indicazioni. Perché ogni risotto bosino è un mondo a sé. E perché mi fa piacere farveli conoscere uno per uno.

Laura Pantaleo Lucchetti
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