Le tecniche di produzione e conservazione del vino nel mondo mediterraneo ci sono note grazie alle testimonianze degli scrittori classici. Ma sappiamo che anche i Celti apprezzavano molto il vino. introdurli al consumo e alla produzione furono gli Etruschi, coi quali gli Insubri Golasecchiani intrattenevano stretti rapporti di carattere commerciale e culturale. Grazie a loro le genti celtiche appresero le tecnologie viti-vinicole in uso nel Mediterraneo orientale e nel mondo egeo-greco modificate, appunto, dagli Etruschi per adattarle alle loro esigenze.
La produzione del vino presso gli Insubri è dunque attestata a partire dal VI secolo a.C., come dimostrano i numerosi reperti ceramici ma soprattutto i semi e il polline di vite rinvenuti nelle sepolture golasecchiane di Castelletto Ticino (No) e risalenti alla fine VII secolo a.C. A ciò si aggiunge, nel medesimo luogo, il rinvenimento di anfore vinarie importate dall'Etruria padana tra il VI e il VII sec. a.C.
Una ricca documentazione che riguarda la viticoltura insubre tradizionale è offerta da molti autori classici: da Varrone (116-27 a.C.), Columella (I sec. d.C.), Seserna padre e figlio (contemporanei di Varrone), Virgilio (70-19 a.C.), Plinio il Vecchio (23-79 d.C.). A parte i primi due, tutti gli altri erano d'origine padana e quindi ben conoscevano l'agricoltura locale.
Con il passaggio del territorio insubre sotto l'Impero la viticoltura non subì cambiamenti radicali, rimanendo pressoché inalterata dal punto di vista tecnico a parte qualche miglioramento sul piano organizzativo. Gli Insubri, infatti, avevano adottato una tecnica di coltivazione del tutto originale che anzi ebbe successo anche presso i romani, i veneti e i galli della Francia centro-orientale: Plinio e Columella lo chiamano Arbustum gallicum. La vite dunque, in Insubria, cresceva maritata ad un albero: tralci di vite maritata all'olmo sono stati in effetti rinvenuti in strati alluvionali profondi nel modenese e ferrarese. A differenza dell'Arbustum italicum, il Gallicum era più basso, i festoni della vite passavano da albero ad albero andando a formare quei filari che noi oggi chiamiamo 'alberate' o 'piantate'.
Varrone descrive la viticoltura praticata presso Mediolanum: egli afferma che al suo tempo le terre della Bassa a sud di Milano poco si addicevano alla coltivazione della vite e alla produzione di buon vino, a differenza dell'alto Milanese e della Brianza meridionale che costituivano invece il cuore viticolo padano. Anche Varrone, come Plinio, sostiene che la vite è coltivata appoggiata ad alberi chiamati opuli e che i tralci sono formati a mo' di festone tra un albero e l'altro.
Columella aggiunge che per ottenere il meglio dall'Arbustum gallicum è opportuno aggiungere paletti - chiamati subiectis adminiculis - per sorreggere i festoni quando i tralci sono appesantiti dai grappoli.
Plinio descrive nel dettaglio anche gli alberi che sostengono la vite nell'Arbustum gallicum: 'Rumpotinus vocatur et alio nomine opolus, arbor Italiae Padum transgressis cuius tabulata in orbem patula puroque perductae dracone in palmam eius, inde in sub rectos ramorum digitos flagella dispergunt', ovvero l'albero che sorregge la vite in Italia Transpadana si chiama rumpotinus o opolus le cui larghe fronde disposte a raggiera sono coperte dalla vite che si estende, con i suoi tralci vecchi, fino alle biforcazioni, e di lì, con i suoi tralci giovani e i viticci, fino alle estremità verticali dei rami. Il rumpotinus (o opolus) era, come testimonia Varrone, ('... arbusta ubis traduces possint fieri vitium, ut mediolanenses faciunt, in arboribus quas vocant opulos') l'acero campestre, ed è interessante notare come ancora oggi laddove tale specie è utilizzata come sostegno della vite persista il nome antico: infatti in dialetto piemontese è chiamato opi, in lombardo è detto opol o oppel, in veneto opio o obia.
L'acero campestre tuttavia non era l'unica specie utilizzata per la vite. Plinio cita anche altre specie arboree quali l'olmo, il frassino, il fico, l'olivo, e più specificatamente per la Transpadana il corniolo, il tiglio, l'orno, il carpino e la quercia. Nei territori di Venezia invece, ricchi di acqua, prevaleva il salice.
Resta da stabilire quali, tra i 140 vini prodotti in tutto l'impero, erano quelli autoctoni insubri. E' sempre Plinio il Vecchio a fornirci la risposta. Tra i vari vitigni presenti da noi, uno era lo spionia o spinea, nel Novarese, antenato dell'attuale vitigno dello Spanna della famiglia del Nebbiolo.
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