Il 21 luglio si è svolta a Monterosso l’edizione 2018 della rassegna VinVagando le Cinque Terre, organizzata dal Comune di Monterosso in collaborazione con l’Associazione Italiana Sommelier. Il vino è uno dei prodotti di punta del mercato turistico alle Cinque Terre.

La fama internazionale delle Cinque Terre è in buona parte dovuta al riconoscimento dell’UNESCO del loro paesaggio come patrimonio dell’umanità, in quanto esempio eminente di un modo di vita basato su una forma di interazione sostenibile con l’ambiente: questo paesaggio è stato infatti plasmato dalle attività umane, e in particolare dalla viticoltura, basata sui terrazzamenti ottenuti con i muretti a secco per rendere coltivabile un territorio aspro e scosceso.

Potremmo ben dire che il paesaggio delle Cinque Terre è un frutto della produzione di vino, come afferma lo slogan usato dai produttori locali: “Un paesaggio, un vino”.

La viticoltura locale però si trova di fronte a grandi difficoltà: nonostante i terrazzamenti, nonostante le politiche del Parco Nazionale delle Cinque Terre di recupero dei terreni incolti e il finanziamento del restauro dei muretti a secco, nonostante i trenini a cremagliera che agevolano la viticoltura, l’attività di produttore di vino in questo contesto presenta difficoltà e costi tali per cui nessuno degli attuali produttori locali riesce a sopravvivere basandosi solo su questa attività, ma tutti hanno un secondo lavoro.

Gli alti costi di produzione del vino Cinque Terre ne hanno determinato un alto prezzo sul mercato, che non risulta abbastanza competitivo; i produttori ad esempio lamentano il fatto che diversi ristoranti locali preferiscono spesso proporre alla loro clientela come “vino della casa” vini meno costosi come il Bianco di Luni.

Ma in generale possiamo osservare, fin dal Dopoguerra, e in particolare dagli anni Sessanta, un progressivo abbandono dei terreni agricoli e delle produzioni alimentari locali e di conseguenza l’abbandono dei terrazzamenti e il ritorno del bosco sulle aree incolte. Insieme alla boscaglia, poi, sono arrivati daini e cinghiali, che spesso e volentieri sconfinano nei terreni coltivati, devastandoli.

 

Il Vino Cinque Terre si è visto riconoscere la Denominazione di Origine Controllata nel 1973, per cui oggi chi lo vuole produrre deve attenersi a un rigido Disciplinare, che stabilisce quali vitigni si possano utilizzare (principalmente uve Bosco, Albarola e Vermentino, più altri vitigni locali dai suggestivi nomi dialettali, come Bruxapagià, Frapelà e Piccabùn), con quali proporzioni (con una netta prevalenza dell’uva Bosco), in quali zone possano essere coltivati, con quali tecniche si possano vinificare e quali debbano essere le caratteristiche organolettiche che deve avere il vino risultante. Cito brevemente dal disciplinare:


colore: giallo paglierino più o meno intenso, vivo;

profumo: intenso, netto, fine, persistente;

sapore: secco, gradevole, sapido, caratteristico;

gradazione alcoolica minima complessiva: 11,0% vol.;

acidità totale minima: 5,0 g/l.;

estratto secco netto minimo: 15,0 g./l.

Nonostante la rigidità del disciplinare, ogni produttore è riuscito a dare una propria impronta personale al proprio vino e in effetti, assaggiandone svariati, è possibile notare come siano molto diversi fra loro, anche senza essere un sommelier professionista.

Alcuni miei interlocutori sostengono però che le percentuali di produzione stabilite nel Disciplinare del 1973 rispecchiavano in realtà quelle caratteristiche della zona di Manarola e Riomaggiore, che un tempo erano molto diverse nelle zone di Vernazza e Monterosso. A riprova di ciò, troviamo a Levanto, il primo paese dopo Monterosso, un altro vino DOC, il “Colline di Levanto”, che presenta gli stessi vitigni, ma con proporzioni invertite: questo ci indica appunto che un tempo le proporzioni fra i vari vitigni non erano fisse, ma variavano da produttore a produttore e se il Bosco prevaleva a Riomaggiore, andava diminuendo andando verso ponente, lasciando gradualmente spazio ad Albarola e Vermentino.

Il Disciplinare del 1973 ha in pratica cristallizzato e generalizzato le proporzioni di una zona specifica delle Cinque Terre, facendo così perdere la ricchezza e la varietà della produzione originale.

I produttori di vino hanno dovuto adeguare la propria produzione agricola per potersi fregiare del marchio DOC, oppure mantenere una produzione casalinga di fatto non destinata al mercato turistico. Tutt’ora è possibile acquistare da alcuni piccoli proprietari il “vino del contadino”, che presenta caratteristiche, sia di produzione sia organolettiche, differenti rispetto a quelle stabilite nel Disciplinare.

Se lo scopo del Disciplinare era di garantire l’autenticità di un prodotto tipico locale stabilendo dei rigidi parametri, paradossalmente, dal punto di vista di alcuni miei interlocutori, il vero prodotto “autentico” è quello che non rientra in quei parametri. Così, mentre un turista occasionale sarà portato ad acquistare il prodotto “ufficiale” nei negozi, al contrario un villeggiante che frequenta le Cinque Terre ogni anno e ha un punto di vista più vicino a quello dei locali sarà invece portato a cercare di acquistare il vino “genuino” prodotto in casa da qualche piccolo proprietario, non destinato al mercato turistico.

Siamo quindi di fronte a due diversi e opposti discorsi sull’autenticità: da un lato l’autenticità mainstream, ottenuta attenendosi ai rigidi dettami del Disciplinare; dall’altro l’autenticità “tradizionale”, ottenuta basandosi su “come si faceva una volta” e quindi in sostanza sul rifiuto del Disciplinare.

L’autenticità mainstream è rivolta soprattutto al mercato turistico, mentre quella “tradizionale” fa presa sugli insider, ovvero sugli abitanti e al massimo sui villeggianti di lunga data. Uno dei produttori locali di recente non si è visto riconoscere il DOC per il proprio vino dalla commissione apposita, per via del colore giallo dorato troppo intenso, e pertanto ha dovuto mettere sulle etichette la generica dicitura “vino bianco”. Con un nome dialettale e un’etichetta accattivante, questo produttore è riuscito comunque a portare nel mercato turistico il suo prodotto, pur rivendicando un’autenticità “tradizionale”.

Prossimamente parleremo dello Sciacchetrà, il famoso vino passito delle Cinque Terre.

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Francesco Bravin è un milanese imbruttito di origini friulane, dottore di ricerca in antropologia presso l’università di Genova, ha condotto una ricerca etnografica alle Cinque Terre sul ruolo dei prodotti tipici locali nell’immaginario turistico, dove si è dovuto sacrificare partecipando a tutte le sagre e le degustazioni di vino. Ha organizzato laboratori didattici in diverse scuole superiori a Milano, Brescia e Savona e al momento collabora come tutor didattico per le Scienze Sociali con l’università eCampus e con l’istituto Grandi Scuole. È presidente e fondatore dell’associazione Antropolis, che a Milano cerca di portare l’antropologia fuori dalla torre d’avorio accademica, nonché socio fondatore di ANPIA e, all’interno di questa, membro della commissione Scuola ed Educazione e del Consiglio dei Saggi. Nel tempo libero fa l’accompagnatore turistico, il biker e lo schermidore storico.