Siamo sotto ricatto.

Abbiamo il coltello alla gola e ce ne andiamo come idioti fischiettando per i campi.

Vi piace lo scenario?

Vi piace il contadino felice, un po’ naif scarpe grosse e cervello fino?
Bene: godetevelo fino in fondo, perché fra poco sparirà.

Sparirà la maschera che abbiamo tenuto in vita e non per un rigurgito di intelligenza e buon senso, ma semplicemente perché sparirà chi la indossa.

Noi.

Gli idioti.

Perdonatemi il parlar duro, ma vedete, non posso fare altrimenti.

Io sono un’incudine.
Un’incudine è dura altrimenti il martello non può forgiarci il ferro incandescente. E battere, battere all’infinito.

Come quelle notti di pioggia, quando pare che il mondo abbia abbracciato la pioggia e non sappia e non voglia più separarsene.

Come una malia.

La stessa che ha avvolto noi, noi agricoltori.

La sindrome dell’incudine. La malattia del ricatto.

Ferale. Sono acciacchi che ci porteranno alla fine, per sfinimento, per morte dentro se non, prima, fuori.

Vado esplicando meglio con un detto gergale: “’mpicato a na’ grasta”.

Come noi, che se ci va bene siamo sotto trebbia o sotto falce, non so se avete presente la mostruosità di questi bucolici ingegni, se sì, provate ad immaginare come potreste starci sotto. Se no, ritenetevi dei graziati.

Ma questa, come vi dicevo, è la situazione più idilliaca. Perché c’è di peggio. Il peggio è quello stare ‘mpicati a una pianta, appesi, penzoloni, ridicoli, grotteschi, come un frutto che è esposto alle mani di chi lo coglierà, o alla terra. Al suo marciume.

E noi siamo così. Ontologicamente così.

Noi siamo come i nostri frutti, i frutti del nostro lavoro, dei nostri rischi, delle nostre paure, delle nostri notti insonni, dei nostri studi, i nostri esprimenti: appesi a una pianta.

E lo sanno tutti.

Anche chi non dovrebbe saperlo.

Ora la storia potrebbe chiudersi con un lieto fine. Che poi a me sembra sempre il più logico. C’è sempre una buona soluzione. E , quasi sempre, viene esclusa. Nello specifico questa buona soluzione, questo lieto fine sarebbe che arrivino uomini colmi di buona volontà, sapere, sagacia e ci raccolgano, e ci depongano nel grembo del mondo, perché da li possiamo rigenerare nuovamente e nuovamente riproporre il ciclo della vita che si rinnova, che non conosce morte, orrori nefandezze.

E’ bello no?

Noi coltiviamo, bravini bravini, voi consumate bravini bravini, stiamo tutti felici contenti e sani, e allora sì, che possiamo fischiettare, se volete indossiamo pure il cappello di paglia.
Ma così non è.

Lo scenario è diverso.

E’ il puzzo di un’officina, dove un’ombra rude, corpulenta e feroce batte, batte senza tregua e senza orrore. E noi siamo incudini.

Ve la immaginate un’incudine fischiettare? Patetica! Patetica, come noi. Come voi vorreste noi e come noi, accondiscendenti, proviamo a mostrarvi di essere.

No.

Siamo maledette incudini.

Quelle dove, dopo un anno di lavoro, qualcuno si avvicina e dice: bene, sei appeso ad una pianta, ti evito di marcire, ti faccio un favore, naturalmente non posso investirci molto.

Così comprano i nostri prodotti.

Così ci battono.

Ora, carissimi tutti, mi dispiace di essere rozza a tal guisa.

Più rozza di me, in questo momento, ricordo solo uno che si venne a ficcare, con la sua strabordante pancia, di fronte alla mia scrivania.

Uno stuzzicadenti fra un sorriso sorcio e allusivo.

Lui ed io di fronte. La storia era già bella e chiusa.

Doveva sottolinearlo solo con un’occhiata vagamente lercia.

Il nobiluomo di campagna veniva a comprare olive, quelle che se non le raccogli cadono e se le mangiano gli uccelli. E se le raccogli e paghi chi te le raccoglie quanto dovresti, e fai tutto l’iter virtuoso poi arrivi e il cliente ti sputa in un occhio che ne trova a prezzo migliore di olio.

Il discorso del nobiluomo non faceva una grinza, ma vi giuro che l’ignominia della sua elemosina sì. Come il suo sguardo. Aveva due scagnozzi alle spalle. Due bravi. Due bravi ragazzi che si strinsero nella macchina continuando a ruminare stuzzicadenti e sguardi. Sollevarono una polvere nel piazzale e un’ira nell’anima andando via e stampandomi addosso un necrologio irridente. Mi lavai le mani dallo loro stretta, la memoria dalla loro morsa no. Mai.

Ma non preoccupatevi, ho tanti altri ricatti da raccontarvi. Tanti altri bei ricordi. E se avrete pazienza lo farò.

Ma non abbiatemene per questi pugni nello stomaco. C’è bisogno di un colpo secco per tornare a respirare. C’è bisogno di coraggio per darlo e per riceverlo.

Ma, soprattutto, c’è bisogno di volersi un gran bene.

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Sono nata in Calabria, sono avvocato e lavoro in un’azienda di famiglia incuneata fra il Pollino e lo Jonio dove l’aria austera del monte si immischia alla salsedine del mare, il che spiega quel senso di vertigini salate che, da sempre, il mio lavoro mi ha trasmesso. Mi piace masticare l’olio, i frutti e le parole. Credo che, in fondo, un nesso stretto ricomponga percorsi, storie, vissuti e mondi che distano apparentemente molto fra loro. E’ quel nesso che segna la mia ricerca.Amo gli orizzonti ampi, le parole scarne, i rapporti umani essenziali, in sintesi pecco di eccesso di sintesi e, questa colpa, me la porto anche nel mio succinto curriculum.
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    A settembre stiamo un po’ tutti così. Sospesi.
    Sospesi fra il vecchio e il nuovo. Fra i raccolti e le semine. Fra le albe e i tramonti e ci sembra che questi estremi siano più vicini di quanto ce lo ricordassimo, di quanto ci servirebbe per capire questi giorni come viverli, se appesi a una speranza o a un rancore. A settembre si decide cosa estirpare e cosa coltivare, cosa seminare e cosa lasciare arido, a settembre si capisce se si vuole continuare a provare a cambiare qualcosa, o lasciarci stare.

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