In fondo all’autostrada dei Trafori si spalanca il mare, agognato dopo due ore di risaie e saliscendi tra le colline piemontesi. E lì, incastonata come un cristallo tra le rocce è cresciuta Genova, la cui planimetria e viabilità rimangono un mistero ai più non svelato.

Lasciamo la macchina al primo parcheggio che incontriamo, affamati e ubriachi di curve e svincoli, dopodiché chiediamo a due ragazzi dove trovare un buon aperitivo con “stuzzico”.

Bar Berto in Piazza delle Erbe: il nome evoca antichi mestieri ed ispira fiducia. Tocca ricredermi sui genovesi, ritenuti rudi e invece gentili, disponibili a condurre noi stranieri tra i dedali di viuzze sporche e cupe.

Ti aspetteresti le peggio cose da un luogo di passaggio, un porto attivo e operoso. In effetti Genova è cattiva, lurida, rumorosa, stancante.

Poi ad un tratto la rivelazione. Lo stracchino caldo che cola fuori da una focaccia di Megli fritta e morbida. Le si perdona tutto. Il prosciutto tagliato a coltello da mangiarci insieme è il colpo di spugna che cancella i peccati della repubblica marinara.

Nel tavolo di fianco al nostro una squadra di sportivi maltesi ubriachi intona canti e svuota bottiglie di vino e superalcolici. Il barista ci spiega che le fave verdi e fresche che si stanno lanciando come scolari da sette in condotta sono un aperitivo di stagione, servito al posto delle classiche patatine.

In una vetrina sulla strada capeggiano teglie di farinata di ceci, unta, sapida ed economica. La Liguria è tutto lo street food che posso immaginare. E per questo le sarò eternamente grata.

Cristina Dei Poli

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